L’identità europea fra sapere condiviso ed eredità perduta

L’identità europea fra sapere condiviso ed eredità perduta, a cura di Alessandro Biancalani e Antonino Postorino, Agorà & Co., 2017, pp. 240, € 25,00 (Collana «Areopago. Laboratorio per una scienza teologica»). Per informazioni e acquisti: infoagoraco@gmail.com o nelle migliori librerie.

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Il fulcro teologico dell’identità europea

Sant’Agostino, trattando filosoficamente del tempo, dice che finché nessuno gli chiede che cos’è lui lo sa, ma, non appena qualcuno glielo chiede, non lo sa più. Lo stesso si potrebbe dire per l’identità europea: tutti ‘sentono’ il significato dell’essere europeo, in un certo senso lo danno per cosa ovvia e scontata, sorprendendosi anche un po’ scandalizzati se qualcuno fa mostra di disconoscere quest’intima essenzialità, e tuttavia il ‘concetto’ dell’essere europeo, se in un passato ormai lontano neanche era richiesto – l’europeo pensava semplicemente se stesso come il centro del mondo –, in un passato più recente si è rivelato difficile da formularsi e per così dire fantasmatico, intessuto di evocazioni non sempre in armonia fra loro, e talora in decisa contraddizione. Eppure l’identità persiste, sotterranea, e noi facciamo spontaneamente coincidere lo stesso concetto della civiltà con quello della cultura ‘occidentale’, essendo poi l’Occidente nient’altro che l’estremo lembo occidentale del continente asiatico, vale a dire l’insieme delle terre che si trovano a nord del mar Mediterraneo e che nell’antichità venivano indicate indeterminatamente col nome mitologico di Europa.

Questa identità per un verso così profonda, per un altro verso così labile ed evanescente, è diventata in tempi recentissimi un problema sempre più preoccupante. Viviamo in un’età di globalizzazione e di contraddizioni anche violente originanti da questo processo, e avvertiamo che un futuro vivibile non sta negli esasperati territorialismi che costituiscono la reazione difensiva alla globalizzazione, ma nella relazione equilibrata fra unità vaste, organizzate e riconosciute. Che l’Europa possa, e in un certo senso debba essere una di queste unità, è qualcosa di pensato e di perseguito ormai da quasi un secolo, ma costruire una vera unità politica sul fondamento materiale della già realizzata unità economica è un passaggio che implicherebbe un’identità culturale vissuta e riconosciuta, ma questa identità, che pur abbiamo visto sotterraneamente sussistere, sembra non riuscire a vedere la luce.

Il problema non è d’altronde puramente teorico, cioè tale che sia pensabile la sua risoluzione da parte di un qualche comitato di saggi composto magari di personaggi di altissima levatura culturale, dunque del tutto affidabili dal punto di vista delle analisi oggettive: è, infatti, scontato che, qualunque tesi sull’identità europea venisse elaborata e proposta da un tale consesso, e con le più rigorose argomentazioni, questa verrebbe immediatamente valutata per il suo eventuale influsso nel distribuire pesi e nel determinare gerarchie di valori, e con ciò accusata da una parte o dell’altra di parzialità ideologica volta a far prevalere l’interesse di questa o di quella parte, quindi immediatamente rifiutata, in uno spirito che sta fra l’oculata prudenza e la grigia e miope burocrazia particolaristica, incapace persino di mettere a tema quella comunione che sui tempi lunghi si rivelerebbe addirittura pragmaticamente vantaggiosa.

L’unità europea si fa così paradigma di una tensione politica tra fautori e oppositori: i primi sono visti dai secondi come ingenui sognatori, o più frequentemente come insinceri gregari, proni alla volontà dei potenti protagonisti dell’alta finanza: l’Europa è da questo punto di vista – e purtroppo lei presta fin troppo il fianco a questa critica – soltanto un intreccio di interessi costituiti che intende ridurre tutto a sé non dando niente in cambio, da un lato prevaricando appunto gli ingenui incapaci di smascherare o anche solo di vedere questo potere autoreferenziale ed indifferente, da un altro lato semplicemente asservendo chi è disposto a lasciarsi asservire in nome di una idealità dichiarata solo ipocritamente. Rotta da queste polemiche meschine che si consumano su se stesse, e priva di quella personalità culturale che potrebbe farne un soggetto politico mondiale, l’Europa perde intanto ogni occasione per avanzare sia pure di poco sul terreno di un’identità percepibile che sarebbe indispensabile per essere un tale soggetto politico: l’incapacità di far fronte al problema dei migranti con l’enorme questione umanitaria che vi sta dietro, e il risorgere di inquietanti particolarismi difensivi, è il contrassegno più appariscente di quello che minaccia sempre più chiaramente di manifestarsi come un clamoroso fallimento culturale.

Questo numero di Areopago, tematizzando l’Europa e la sua identità, non si illude di risolvere un problema storico-politico che si è appena detto non risolvibile su un piano puramente teorico a prescindere dal gioco delle forze in campo. Vuole invece articolare la tesi – quale che possa essere la sua incidenza sul piano più generale di una discussione che almeno provi a superare l’attuale ‘impasse’ circa la problematica identità europea – secondo cui, se l’Europa ha davvero un’identità – e riuscendo ad emanciparsi dalla miopia degli interessi settoriali e della visione su tempi brevi sembra fuori dubbio che ce l’abbia –, questa identità è precisamente teologica: non nel senso che ci si debba rivolgere alla teologia per interrogarsi sull’identità europea, ma nel senso che quella che si potrebbe chiamare una ‘mens theologica’ è, forse, l’elemento più profondamente e vistosamente comune al complesso di manifestazioni, di realizzazioni e di acquisizioni culturali che sui tempi lunghi connotano senza ombra di dubbio un’identità profonda, e delinea nettamente un patrimonio irrinunciabile di valori di fondo il cui riconoscimento fa sentire ogni europeo – e ormai ogni appartenente all’area di irradiazione di questa cultura – come a casa propria, avvertendo invece come intollerabile un mondo nel quale questi valori non vengano teoricamente riconosciuti o siano praticamente violati.

Enunciare questi valori come aventi la loro radice in una ‘mens theologica’ può sorprendere e lasciare perplesso chi semplicemente si lasci guidare da stereotipi sedimentati e calcificati, poiché si parla dei valori consustanziali a un umanesimo di fondo, cioè libertà di pensiero e di coscienza, tolleranza, laicità, eguaglianza dei diritti, democrazia, ossia proprio di quei valori che quegli stereotipi suggeriscono piuttosto come antagonistici rispetto allo spirito ecclesiastico, che dal canto suo è avvertito come il naturale alveo della teologia. Il presente numero di Areopago, dunque, vuole essere un contributo al superamento di quell’opposizione fra poteri ed interessi contrapposti il cui dialogo è impossibile a causa delle non volute implicazioni di un eventuale reciproco riconoscimento. Questa opposizione è superabile solo attraverso un processo che conduca al recupero del senso della necessità di custodire uno ‘spazio comune’ che implica ‘riflessioni condivise’ in forza del retaggio che fa dell’Europa un popolo e come una ‘casa accogliente’, dove si sappiano affrontare con doverosa continuità le sfide dell’orizzonte storico e non solo. Quel retaggio spinge a intessere una ‘cittadinanza dei saperi’ nella quale il sapere teologico ha svolto nella storia d’Europa un ruolo assolutamente portante, che tuttavia va colto nelle sue radici profonde e meno visibili, mentre la superficie appare improntata dal riduzionismo ideologico, fonte dei detti stereotipi. Ragionare sull’identità europea rapportandosi ad una situazione culturale dominata da quegli stereotipi, con una sorta di ‘brainstorming’ che ci porti ad allargare i nostri orizzonti ermeneutici, è il progetto che i collaboratori di Areopago hanno formulato, e che hanno posto quale finalità di questo secondo numero della collana.

Alessandro Biancalani

Antonino Postorino

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